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Italians_Una_giornata_nel_mondo

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Ore 08

Apnea

Tiziana Pedone

Un’ora sola ti vorrei, per dirti quello che non sai... Musica. Stacco pubblicitario. Gente che ride in radio. Sorrido pure io. Milano. La mia Grande Mela, ognuno ha la sua croce, mi aspetta per inghiottirmi nel fiume inarginabile di macchine. E io mi lascio trascinare inerme, mentre il tempo scorre davanti al parabrezza della mia utilitaria. Via Ripamonti. C’è una lunga fila di auto davanti a me. Ferme. Poi, man mano che mi avvicino all’Istituto europeo di Oncologia, le auto si separano. C’è chi gira a destra per entrare nell’ormai straripante parcheggio e c’è chi, invece, prosegue diritto per entrare in città. Riflessione: per la tanta affluenza di persone, che quotidianamente varca quella soglia, l’Istituto europeo di Oncologia appare più come un centro commerciale, che non il luogo dove speranze e sofferenze trovano rifugio. Proseguo nel mio viaggio metropolitano. Un po’ più triste, ma ancora fiduciosa. Radio accesa e telefonino spento. C’è tanta gente attorno a me. Dovrei sentirmi parte di una comunità. E invece, chissà perché, mi sento solo parte di un ingranaggio. Intravedo i vigili in fondo alla Darsena. I semafori sono ancora saltati, insieme ai nervi degli automobilisti. Oggi è martedì! E ancora una volta mi trovo risucchiata nell’imbuto di viale Papiniano dove ahimè c’è il mercato. Furgoncini in doppia fila, auto medie, piccole e grandi (non ci sono limiti alla provvidenza) moto, biciclette e pedoni, animano lo scenario di questo canale. Autoambulanza. Facciamo spazio! Urla la mia anima. La sirena si avvicina. Eccola. Ce l’ha fatta a passare! Per fortuna. Via XX Settembre. Spazioso e ossigenato da Parco Sempione. Abbasso il finestrino e finalmente riprendo a respirare! L’apnea è finita. Osservo i cani ricchi che fanno la loro passeggiata, nel verde perfetto, in punta di zampa. Inspiro. Poi espiro. Due, ma anche tre volte. Quanto basta. Eccomi pronta per il Grande Momento. Il Parcheggio. Oggi sciopero generale dell’Atm. Inspiro. Poi espiro.

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Tangenziale nell’anima

Silvia Bolamperti

Milano, Tangenziale Est, ogni mattina, ogni mattina di un giorno feriale. È il confessato incubo di ogni milanese, che si muove dal centro verso i paesi dell’hinterland o viceversa e anche il mio. Percorro quella strada ormai da anni, tanto che persino gli alberi mi sono familiari, persino le rigacce sul guardrail, lasciate da qualche sfortunato incidentato sono più che note, e noi viandanti abituali nei minuti di fermo siamo lì a guardare anche questi piccoli particolari. Il tragitto dura un’ora, un’ora da quando premo il pulsante dell’ascensore per scendere a prendere l’auto in garage, e mentre arriva controllo mentalmente di aver preso tutto quello che mi serve, consapevole del fatto che anche se avessi malauguratamente dimenticato qualcosa, non potrei sprecare minuti preziosi per tornare indietro a prenderla. Salgo in macchina e una volta allacciata alla velocità della luce la cintura di sicurezza per non essere assordata, nel torpore del risveglio, da quell’odioso cicalio, parto, e dopo numero 3 secondi netti, tempo necessario per inserire la prima marcia, sono già in coda. Sono una professionista dell’attesa, per i primi minuti ascolto l’ultima stazione radio rimasta impostata dalla sera precedente, dopo poco, inizio a connettere e realizzo che sarebbe meglio cercare qualcosa che mi piace davvero, così da ferma, mi chino per rovistare nel cassettino porta oggetti, stracolmo di cd, e cercare qualcosa che mi vada di ascoltare in quel momento; nel silenzio del tuo abitacolo assapori meglio le parole, e la musica è più penetrante perché lì, immobile, non hai distrazioni. Scruto i vicini d’auto, alcuni sono sorridenti, altri sono nervosissimi e vorrebbero infilarsi tra le due corsie e sfrecciare via. Le donne, meravigliose e imperturbabili, utilizzano questo lasso di tempo per truccarsi, e quante volte l’ho fatto anch’io! Manca poco ormai, il peggio è passato, salvo imprevisti dell’ultimo minuto, per scongiurare i quali faccio ricorso a qualsiasi scaramanzia; l’enorme cartellone verde con scritto Uscita,

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che per la gioia mi appare illuminato modello Las Vegas, è vicinissimo. (Nel gergo della tangenziale vicinissimo significa un chilometro, ma percorso alla velocità di un bradipo!) Finalmente riconosco il paesaggio alla mia destra, da questo punto in poi dovrei riuscire in dieci minuti a essere nel posteggio dell’ufficio. Già l’umore cambia, accenno anche la canzone di sottofondo e so che il peggio è passato, già, fino a questa sera... Sono nella hall e di nuovo attendo l’ascensore per l’ultimo piano, già, dall’inferno al paradiso? Din! La porta si chiude dietro di me.

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Un’ora... da sogno

Federica Bianco

Ore 8.00. Dei suoni conosciuti giungono alle mie orecchie. Sarà l’uomo della mia vita che mi sussurra parole dolci o forse un tenero usignolo che canta per me, o forse il mio capo che in un attimo di follia mi comunica un premio produzione? No! È la fredda e spietata sveglia del mio telefonino! E come ogni mattina la spengo, dormicchio ancora un po’ e alla fine mi arrendo al triste distacco dalle tanto amate bianche lenzuola. Mmm... Un fragrante profumo di sfogliatelle pervade la mia camera d’albergo napoletana. Prima o poi cambio vita e compro la pasticceria di fronte! Ore 8.09. Mi tuffo sotto il violetto getto bollente della doccia: strofina strofina, sciacqua sciacqua, asciuga asciuga, e in men che non si dica sono fresca come una rosa pronta per la colazione! Ore 8.19. Questa mattina devo assolutamente provare la torta ricotta e pera! Ma... Sogno o son desta! Cosa ci fa Brad Pitt a Napoli? E perché non mi ha avvertito del suo arrivo? Al diavolo l’ufficio oggi fuggirò con lui! Angelina mi perdonerà se per un giorno le rubo il suo Principe! Ore 8.20. Shopping folle in via Filangieri; una camicetta per me, un cappello per lui e... Una dolce colazione per noi due. Ore 8.50. Inizia a piovere. Come diceva quella canzone? Chist’è ’o paese d’o sole... Corriamo sotto la pioggia alla ricerca di un riparo... Ore 8.53. Le sue forti braccia mi avvolgono in un caldo e tenero abbraccio. Il tempo si arresta. I nostri sguardi si incrociano. Il suo volto si avvicina al mio. E un bacio appassionato travolge i nostri sensi. Ore 8.57. Una bambina si avvicina a noi e mi offre una gerbera rosa, io in cambio le sorrido e le accarezzo i riccioli biondi. Ore 8.59. Odo un suono che proviene da lontano, mi sembra familiare, ma non riesco a distinguerlo bene, lo ignoro. Ore 9.00. Di nuovo... Oh cavolo! La sveglia! Brad, lo shopping, la pioggia, la bambina... Mi volto nel letto e trovo una gerbera rosa posata accanto a me con un biglietto accanto: «Con te la vita è come un sogno. xxx Brad».

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Nome, cognome, sorriso e merendina

Claudio Rossi

Eccovi tutti schierati a soppesare ogni mia mossa, da quando entro alle otto a quando esco un’ora dopo. Siete quieti il primo giorno, ma tra un mese con qualcuno di voi sarò già alle strette. Scorrendo i vostri nomi ne leggo alcuni davvero strani e mi chiedo come la globalizzazione sia potuta arrivare anche in questo piccolo paese sperduto beatamente fra le capre. Ci sono Luna, Kelly, Kevin, varie versioni di Erica e Sara, nomi vecchi come i vostri monti ma a cui i vostri genitori hanno fatto l’upgrade per mezzo di k e h cromate. E poi ci sono sempre i Michael, ognuno scritto in un modo diverso. Non potete immaginare l’ansia che ho i primi giorni quando entro da voi; so che ognuno si aspetta qualcosa di diverso, perché diversi siete, ma voi non sapete che nelle prossime quattro ore incontrerò altri cento di voi e chissà per quante settimane ancora continuerò a chiamarvi indicandovi con il dito. Non è per mancanza di rispetto. So che le cose andranno meglio per tutti quando vi saprò a memoria: nome, cognome, sorriso e merendina. Alle otto e dieci finisco il giro delle presentazioni e già qualche spavaldo si fa notare. Saranno i primi di voi che riconoscerò e quelli che più mi faranno penare. Come vorrei non arrivare sempre alla fine dell’anno per scovare anche i più timidi. Alle otto e venti cominciate il gioco delle mani alzate a ogni mia parola. Ma bisogna sempre spiegarvi proprio tutto? Alle otto e trenta posso salutarvi tutti per nome e lanciarvi battute personalizzate. A venti alle nove vi ho detto che l’anno prossimo sarò altrove, dove mi lasceranno cadere le graduatorie. Ho visto alcuni di voi piangere, alcuni guardarmi con compostezza. Ho amato gli uni e gli altri. Sono le nove e vi saluto. Ci vedremo le ultime ore in palestra per i tornei di fine anno e in pizzeria se mi inviterete. Mi avete fatto stare male e bene. Non ho più l’ansia di entrare fra di voi, ma ho una grande nostalgia ora che devo uscire.

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Alieni a Tokyo

Luigi Finocchiaro

Il sole a Tokyo sorge veramente troppo presto. Non corri il rischio di svegliarti tardi. Casomai ci pensano i corvi, onnipresenti con il loro gracchiare. Apro la finestra e percepisco un lieve profumo d’incenso. È la vedova accanto che prega per il marito. Di sotto, la signora «Piccolo Tempio» (Onodera) prepara la zuppa di miso per le bimbe. La signora Ciotola – per via della pettinatura – ancora russa beata. Tutt’intorno calma. Dovrei uscire, ma non rinuncio a cincischiarmi ancora un poco. Uno sguardo a mia figlia che dorme: ma quant’è bella! Meno male che ha preso dalla madre. Una carezza al gatto Gino e via di corsa con i piedi non ancora completamente nelle scarpe. Arrivo alla metro ansimante e trafelato, poi ancora calma. Siamo tutti in fila per tre, allineati e compatti. Il treno parte dalla mia stazione e quindi chi entra prima, guadagna il posto a sedere. Fra tre fermate c’è una megastazione, salirà una fiumana di gente. Seguiranno le famose scene con gli addetti che pigiano tutti nelle carrozze. A un tratto, tutto il gruppo si sposta lateralmente di tre passi, all’unisono e in silenzio, una scena quasi irreale. Siamo nel punto esatto dove si apriranno le porte. Poi, la ressa. La città è immensa, ma è come un agglomerato di paesotti. Ci si conosce di vista. Ecco il signore tanto distinto che legge sempre i manga con le lolite. Poi, la signora sorridente che incontro sempre al supermercato. Un tizio legge serio un Sutra a bassa voce. La bellona ritocca il trucco, peraltro già impeccabile. Un expat che ha fatto troppa baldoria ha il fiato fetido. Faccio lo slalom per evitare la megera che mi tira sempre delle gomitate nei fianchi durante la ressa. Chi vuol darsi un tono legge il Nikkei, in alternativa videogames. Le donne son quasi sempre a mandare e-mail, hanno il pollice bionico, penso a volte. Poi, mi sovviene che l’alieno sono io.

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La vita pendolare

Damiano Collacchi

Mi ritrovo qui, come ogni mattina, in questa fredda stazione di provincia, pronto (o quasi) per una nuova giornata lavorativa. Ecco arrivare tutti i miei compagni di viaggio, dopo il rituale dei saluti, si comincia a parlare del più e del meno in attesa del treno che «puntualmente» è in ritardo. Appena quell’odiosa voce metallica (non so perché ma preferivo di gran lunga quella del capostazione) annuncia che il treno è in arrivo ci si sposta tutti sulla banchina come un gregge di pecore che si appresta a rientrare nella stalla per la mungitura. Anche oggi il nostro mezzo di locomozione preferito è pienissimo e siamo costretti, come tutte le sante mattine, a viaggiare in piedi uno sull’altro; d’altronde le ferrovie ti assicurano il trasporto (in teoria), non il posto seduto, anche se paghi un abbonamento molto caro. In questo stato di equilibrio precario c’è chi prova a leggere un giornale, ma rinuncia quasi subito visto lo spazio risicato, chi si mette in disparte e ascolta musica, senza accorgersi che ha il volume talmente alto che tutta la carrozza muove la testa a ritmo di musica; credo che fra qualche anno ci sarà qualche otorino che guadagnerà un bel po’ di soldi. C’è il solito gruppetto che parla a voce abbastanza alta, per coprire la musica del tizio con le cuffiette, discutono su tutto, dal calcio alla politica, dalle notizie di attualità all’ultimo eliminato della casa del Grande Fratello. C’è chi, come me, cerca di fare il tipo acculturato, tirando fuori un bel libro, ma vista la confusione rilegge per quindici volte la stessa frase, non la capisce, e rimette il libro nella borsa con esercizi da contorsionista. Stiamo per arrivare a destinazione, ma puntualmente il solito semaforo ci tiene fermi sui binari per una decina di minuti, la gente che fino al quel momento era stata comodamente seduta ci vuol passar davanti per scendere, come se non dovessimo farlo anche noi. Arrivati! Ma c’è ancora una giornata lavorativa davanti, questa è la vita del pendolare.

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Come comincia la giornata

Bruno Spina

Le otto. Antimeridiane, per dirla all’anglosassone. Un’ora magica e maledetta, quella della sveglia, dell’uscire dal letto e prepararsi a un’altra giornata di lavoro. Si fa sempre fatica ad abbandonare il bozzolo caldo delle coperte, divise e condivise con la moglie, gioia e tormento di ogni marito che si rispetti. Alla fine si capitola, si abbandona il letto, ci si alza a fatica cercando le ciabatte, e si prende la via del bagno. Momento di catarsi che poche donne comprendono realmente e che ogni marito che si rispetti ha rinunciato a vivere in nome dell’amore. Questa donna, dagli occhi appesantiti, che si intrufola nell’angusto spazio privato anche questa mattina, rappresenta il simbolo del vero amore. Cosa altro potrebbe indurre un uomo a sposarsi? Ci si lava, osservando il proprio volto sempre più stanco, l’attaccatura dei capelli che retrocede come la privacy, qualche capello bianco, e la pancia che mette giornalmente alla prova i buchi della cinta. Con passo stanco, intorpidito dal sonno, si arriva alla colazione dopo essersi accuratamente vestiti. E questa è un’ulteriore prova della forza dell’unione matrimoniale, uno scoglio da superare con coraggio: il dialogo mattutino. Non c’è televisione in cucina: ammazza il dialogo. Non c’è via di scampo, bisogna parlare, anche se le idee e i pensieri fanno fatica ad abbandonare i lidi onirici cui erano attaccati. Ma non c’è fantasia che possa reggere l’impeto della passione, così, di fronte al dolce fatto in casa, alla tazza di latte e caffè, alle tovagliette con la mucca (vacca) di lei, e al maiale (porco) di lui, si dialoga. Cosa mangiamo oggi a pranzo? E a cena? Andiamo da mia madre o da tua nonna domenica? Così via finché l’orologio non dice che è ora. Si scendono le scale, si fanno quattro passi nell’aria frizzante del mattino, e ci si separa con un bacio leggero, una carezza al pancione e via verso il bar, il caffè, il giornale. Poi, fra i vivi, l’ufficio, dove si accende il computer e si comincia.

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