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Italians_Una_giornata_nel_mondo

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Allo specchio

Anna Corsaro

Immagini confuse mi passano davanti mentre mi guardo allo specchio e vedo un panda. La matita e il rimmel intorno agli occhi, scivolati giù per le guance durante la notte, mi danno un’aria così triste. Eppure non sono triste, non lo sono totalmente. Un sole di inizio autunno invade la stanza, illumina gli oggetti, mi costringe a socchiudere gli occhi. Con le mani appoggiate al lavandino continuo a osservarmi. Qualche piccola ruga comincia a scavarmi il viso, dando vita a espressioni nuove che a volte mi sembra di non sentire mie. Ma è inevitabile. Gli anni passano e lentamente subisco le trasformazioni dell’età. Mi avvicino allo specchio. Osservando i miei occhi verdi ripercorro velocemente giorni, mesi, anni. Rivivo in un attimo gioie e dolori. Rivedo amici, sguardi incontrati per caso chissà quanto tempo fa. Mi riscopro bambina, adolescente, ragazza, donna. E poi all’improvviso ritorno alla sera prima. A quell’assurda litigata, alle urla feroci, ai cocci di bicchiere sparsi sul pavimento, alla rabbia, alle lacrime, agli sguardi della gente fissi su di noi, all’addio. Abbasso gli occhi. Sull’anulare adesso resta solo un segno sbiadito. Ancora ricordi, emozioni, ancora gioie e dolori. L’acqua comincia a scorrere fredda. Sospiro sentendo il getto gelido sulle mie mani, poi sul mio viso. E lentamente la matita scivola via, il rimmel scompare. Guardo nuovamente lo specchio, mi vedo diversa. Quell’aria triste adesso sembra essere completamente sparita. Oggi non metterò neanche un filo di trucco. Mi piace vedermi così, alla luce del sole non ancora caldo del mattino. Mi fa sentire me stessa, mi fa sentire viva, mi fa sentire libera. Guardo l’orologio alla parete. Sono già le 8.20, devo sbrigarmi. Comincia un nuovo giorno, una nuova vita.

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Giorno di pensioni

Aqua Rossi

«Alza le mani, ho detto alza le maniiiii!» Gridò talmente forte che l’orecchio mi fischiò. A quell’ora di solito l’ufficio postale era già pieno di vecchi in fila per il ritiro della pensione. Sarà che c’era lo sciopero degli autobus quel giorno, sarà che l’ufficio postale di via Rinaldini era un po’ fuori mano, ma di vecchietto quella mattina alle otto ce n’era uno solo, appoggiato al muro, con la mano sul cuore. Di tanto in tanto mi fissava come dire «abbiamo paura»; io gli rispondevo con un’occhiata sicura come dire «tranquillo». Ma avevo più paura di lui. «Tu! Prendi i soldi» mi sentii afferrare violentemente per un braccio e fui spinta con forza in avanti. Mi venne da piangere. Aprii i cassetti, uno dopo l’altro, con la chiave che il direttore mi aveva affidato il giorno prima; presi i contanti con una sola mano accartocciandoli in malomodo come fossero carta straccia. Li buttai in un grosso borsone già pieno dei soldi delle pensioni. Mi strattonò verso di lui facendomi rimanere di spalle, poi mi mise il suo braccio intorno al collo. Sentii la lama gelata di un coltello appoggiarsi sotto il mio orecchio sinistro. Vidi tutti immobili, davanti a me, come in posa per una fotografia: il fattorino postale in piedi in un angolo, il vecchio appiccicato al muro, con la mano sul cuore, Lina e Paola sedute alle loro postazioni con le mani alzate. Mi trascinò con lui, camminando all’indietro, fino all’uscita. Girato l’angolo mi spinse all’interno di un furgone e mi ci chiuse dentro. Sentii avviare il motore, poi il furgone partì. Avranno già dato l’allarme? Mi staranno cercando? Ma dove mi cercheranno? Passò circa un’ora, poi il mezzo si fermò e il portellone si aprì. Eravamo soli, lungo un sentiero sterrato circondato dai campi. Soltanto in quel momento il mio cuore ricominciò a battere; anche il viso di Bruno aveva ripreso colore. Ci guardammo, gli occhi pieni di speranza.

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8.15 am. Jubilee Line

Federico Sanavio

Sveglia e sole dalla finestra, doccia, barba e orange juice per svegliarsi la seconda volta, fuori dalla porta di casa nuvolo e pioggia ti fanno tornare di nuovo alla realtà. 8.15 am, raccogli un «Metro» da leggere, oyster card alla mano e sei pronto a varcare quel gate e salire in quell’affollata metropolitana, facce che si riconoscono ma non si salutano. Uomini e donne stanchi di essere nelle loro «divise» da ufficio, alcuni ancora in hangover per il dopo ufficio passato nel pub, alcuni concentrati dalla musica del loro iPod e alcuni impegnati a scrivere l’ultimo sms prima che il treno entri in galleria, tutti compressi come carne in scatola accanto alle porte di uscita e consapevoli che per quelle poche fermate fino a Canary Wharf bisognerà sopportare. Il treno si svuota a metà dandoti la possibilità se sei abile e furbo di sederti e finalmente leggere il tuo «Metro», dove tutti son veloci nelle prime pagine di cronaca, le donne si soffermano poi sul gossip al centro e gli uomini sullo sport alla fine. Sette minuti a London-Bridge, passano in fretta se non ci sono ritardi, si aprono le porte cerchi di farti strada dove molti scendono e ancor di più cercano di salire. Per quei cunicoli che congiungono alla Northern Line si sente solo il rumore dei tacchi delle scarpe eleganti, è ancora presto per i musicisti del busking corner. Sei consapevole che le altre due fermate fino a Moorgate saranno peggio, la banchina piena fino al muro, aspetti magari altri due o tre treni prima di salire, ti sentirai ancora più schiacciato tanto da farti ricredere ogni volta del perché stirare le camicie il giorno prima. Esci dal treno e c’è sempre vento in quella dannata stazione. Eat, Pret, Starbucks o Costa, quello che vuoi è un hot cappuccino o un mocha se hai quei 20p in più. Sali in ufficio, login, password e sorso di caffè dalla tua tazza di cartone, pronto per una nuova giornata consapevole del fatto che alle 5.30 tornerai a casa nella stessa maniera e potrebbe essere peggio di questa mattina.

Ore 09

Il 41P

Claudia Bruno

Il 41P passa dall’altro lato della strada alle otto e quaranta. Si ferma alla rotonda, imbocca la discesa e raggiunge il quartiere popolare. Fa il giro e poi risale in piazza, ma senza eccessiva fretta. Si ferma sotto la fontana e apre le portiere. Dice buongiorno alle donne che stavano aspettando a terra. Bianche in testa e con i fiori in mano, sembrano spose passate di moda. Una mattina sì e una no salgono a bordo. Questa mattina sì. Il 41P chiude le portiere e ingrana la marcia. Riparte e corre lungo la via dell’Istituto tecnico, alla rotonda si ferma e gira. Continua dritto e lascia il centro. È un’ora di strana quiete. Tutti hanno appena iniziato, nessuno si permette ancora di interrompere l’attività. Lungo le strade regna un particolare silenzio. Il 41P avanza per la discesa con un certo orgoglio di poter esistere subito dopo la grande frenesia mattutina. Si percepisce da come frena, da come si accosta ai marciapiedi, da come saluta. Il 41P è un autobus educato. Gira a destra e si ferma davanti a un parco silenzioso. È il camposanto. Le signore scendono in fila con i fiori sgualciti e i capelli spettinati. Sono contente, sorridono. Appeso alla pensilina c’è ancora il cartello scritto a mano, incollato

con lo scotch: CERCO COMPAGNA DI VITA O ANCHE AMICA. HO 78

ANNI. SONO VEDOVO. FRANCO. Il 41P chiude nuovamente le portiere, saluta Franco e riparte. Corre lungo la strada assolata e contempla le campagne dell’agro. Attende il verde al semaforo, gira a destra e accoglie la signora del bivio. Taglia a metà le stradine del quartiere agricolo, traballa sulle buche, esprime il suo dissenso cigolando. Poi costeggia la solfatara, passa sotto il ponte, imbocca la salita boscosa e si ferma davanti alla stazione. Stavolta scendo anch’io. Il treno diretto a Roma Termini arriverà con dieci minuti di ritardo. Aspetto in silenzio sulla banchina del binario due, respiro. Mi chiedo se Franco resterà da solo anche oggi.

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Incontri

Maria Beria

Alle nove del mattino arrivo, dopo un percorso breve ma pieno di rischi in bicicletta, a casa di mia figlia. Inizia la mia giornata di nonna-sitter. Che comincia con l’incontro con le persone che segnano la mia vita. Prima fra tutti mi accoglie la gatta Cleo, vorrebbe mangiare, ma Laura è troppo di fretta al mattino e quindi deve aspettare che arrivi la nonna. Ovvio che la suddetta nonna viene accolta da Cleo con grandi effusioni di amicizia assolutamente disinteressata. Subito dopo appare Laura, mia figlia, la mia prima figlia, quella che trent’anni fa mi ha fatto sentire tanto importante perché ero stata capace di dare la vita a una bambina meravigliosa che si è poi dimostrata una donna altrettanto meravigliosa. E poi si iniziano a sentire i primi cigolii di Tommy (venti mesi) che si sveglia. Cerca la mamma e lei se lo coccola per una decina di minuti perché bisogna andare in ufficio. Allora appare la nonna, e ogni mattina vengo accolta dal più bello e caloroso dei sorrisi. Uno di quei sorrisi che se per caso sei un po’ giù, se hai dei problemi, se hai mal di testa, se sei già stanca perché la tua giornata è iniziata già da qualche ora... basta a farti sentire la donna più felice della terra. E poi per un’oretta siamo solo io e Tommy. La nonna canta (cavallo di battaglia La canzone di Marinella), balla (per fortuna nessuno mi vede tranne naturalmente Tommy che apprezza), gioca (a volte discutiamo sul gioco da fare ma poi ci mettiamo d’accordo, basta che io ceda e si giochi a palla), sorride (come solo con un bambino si può fare). E lui, questo piccolo uomo, mi stupisce ogni giorno per tutto quello che riesce a darmi, per come riesce a divertirmi con le sue parole inventate, per come si appassiona al suono dei carillon, per come basta una barchetta fatta con un foglio di carta per renderlo felice.

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Un’altra giornata è passata

Cristina Maccarrone

Lui se n’è appena andato. Mi ha dato l’ultimo bacio della mattinata e io ho chiuso la porta a chiave. Sono le 9, come ogni mattina. Il tavolo ha le molliche delle fette biscottate, il vasetto della marmellata, il coltello sporco e il computer. È questo, ogni giorno, alla stessa ora, il mio corredo. Il mio ufficio. La mia vita. La luce è accesa, a quest’ora non si vede nulla e il sole non arriva fino al tavolo se non spalanco tutto, e io sono ancora in pigiama. Che vivo la mia vita attraverso lo schermo. Inizia così: annunci su annunci, newsletter di lavori che con una laurea che mi ha insegnato ad amare Tacito e Pirandello, non c’entrano niente, poi il solito spam, qualche mail degli amici e la classica domanda: Come va? Grazie, a saperlo te lo direi. «Non ti devi arrendere» ti dicono tutti e intanto ti scrivono dai loro uffici. Usano messenger, facebook. Al lavoro. Facciamo le stesse cose, loro lì con un capo che è lontano o gironzola da un’altra parte, io qui, in questa casa. Posso fare pipì quando voglio, posso alzarmi e guardare il telefono, mandare un sms sonnecchiando e cercare ’sto maledetto lavoro. Che di tempo ne ho poco: quando arriverò a 32 il mercato non mi vorrà più. Loro che si lamentano di doversi alzare e dovere uscire, di rischiare di fare in ritardo, di prendere la metro, di respirare l’odore acre del sudore degli altri. Io che mi sogno queste cose, per potere dire «sto vivendo». Loro che hanno la giornata scandita, io che me la devo organizzare per non sentire il magone della disoccupazione. E questa è l’ora peggiore. Non ci sono appuntamenti, se non quelli medici. Non ci sono mail con riunioni, non ci sono telefonate, niente eppure tutto. Perché devi inventare. Perché hai tutta la giornata davanti e hai il tempo di pulire, di stirare, di mangiare, di parlare con la mamma, con il papà, di chattare, di essere te stessa. E quando arriva quest’ora vorresti già che fossero le 9 di sera. Un’altra giornata è passata.

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Villa Esther

Silvia Palermo

Toc toc. «Avanti!» «La signora Silvia?» «Sì.» «Lei è la prima. Ecco il kit, si prepari, la veniamo a prendere fra un’ora.» Un’ora, ancora un’ora. Un’ora, solo un’ora. Come è vero che tutto è relativo. Guardo il polso d’istinto per fermare questo momento, per far partire il cronometro, ma non ho l’orologio. Me lo hanno fatto togliere ieri sera, insieme agli orecchini, ai miei due anelli e al ciondolo col pinguino. Guardo la busta di plastica che l’infermiera ha poggiato sul letto e non oso toccarla. Leggo alla rovescia la scritta cubitale: «Kit per intervento. Contiene: 1 camice, 2 gambali, 1 cuffia». È una busta minuscola: come può contenere tutte queste cose? Mi decido ad aprirla. Ho un’ora di tempo ma dopo pochi secondi sono già in bagno a svestirmi per indossare questo ridicolo camice. È come non avere niente addosso. Con la cuffia e i gambali mi sento la nonna sexy di Cappuccetto rosso. Esco dal bagno e mi infilo sotto le coperte, ho freddo. Sono la prima, ha detto l’infermiera. Che bisogno aveva di dirmelo? Glielo ho forse chiesto? Non mi piace l’idea di essere la prima. I medici saranno ancora mezzo addormentati, avranno bevuto abbastanza caffè? Arriveranno trafelati con ancora la notte addosso. E se è stata una brutta serata non avranno avuto il tempo di smaltirla, di dimenticarla. Avrei preferito essere la seconda. Mi piace essere la seconda. A volte conviene anche. Conviene essere la seconda figlia, per esempio, conviene fare gli esami all’università per secondi. I primi servono da rodaggio, i secondi catturano l’attenzione e sorpassano arrivando alla meta. E poi, nel caso degli esami, c’è anche un sottile discorso psicologico: quale professore metterebbe un 30 alle 9.00 di mattina? Penserebbe di essere un buono o di condizionare l’intero appello. Se ha fatto un buon esame, il primo candidato prenderà un 27, il secondo invece un 30. In amore invece non conviene essere secondi... già, in amore. «Si è cambiata?» «Sì» dico con voce flebile,

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