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Italians_Una_giornata_nel_mondo

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Ma che ci faccio qui a quest’ora?

Elena Lucchi

Sto guidando su un rettilineo, intorno a me aperta campagna. Ma dove sarò? I miei viaggi in macchina sono nel traffico di Milano verso l’ufficio, tra albe e tramonti in tangenziale. In macchina due seggiolini per bimbi e tante briciole. Ho dei figli! Chissà come sono, chissà con chi li ho fatti. Almeno ho trovato qualcuno con cui farli, che non è poco. O forse sto guidando la macchina di qualcun altro... Arrivo in una cittadina dove un castello troneggia in fondo al panorama. Questo castello sembra quello di Windsor, sì, è quello, ma io che c’entro qui? La macchina continua su per la collina del castello e poi verso un fiume. Fino al cancello di una scuola. Vedrò i miei bambini! Però... che ci faccio qui a quest’ora? Avrò preso il pomeriggio libero per una recita o cose simili. Sicuramente sono una mamma che lavora. Mi approccia una signora che mi chiede qualcosa in inglese, capisco solo coffee morning. Che ha detto? Ma insomma, dove sono i miei bimbi? Ma guarda che casino c’è qui, macchine e genitori ovunque, il parcheggio della scuola intasato, sono ferma da venti minuti in una coda di macchine, peggio della tangenziale. Però nessuno suona il clacson, un altro mondo. Pianto la macchina in coda ed esco, vado verso un portone dove una signora mi consegna una bambina che mi chiede in un buffo italiano cosa ho per snack. Questa sarebbe mia figlia? Ma che tipo, chi le ha insegnato l’educazione? Manco saluta e subito vuole la merenda. Però che tenera, mi dà la manina. Certo che con me non c’entra niente, da dove li ha presi quei riccioli? Mi chiede di Julian e io le dico che è all’asilo. Ah, ecco dov’è il proprietario del secondo seggiolino. Saliamo in macchina e aspettiamo che la coda si smuova per uscire dal cancello. A quanto pare non c’è nessuna recita. Se dieci anni fa avessi guardato nel mio futuro, queste sono le 15 che avrei visto... e il mio stupore di ieri, è la mia gioia di oggi.

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Saigon afternoon

Thomas Beve

Sono qui, nella mia casettina di Saigon, Vietnam, ubriaco di 7Up e latte di cocco, con il computer davanti e il mouse tra le dita, seduto su una seggiola, in mutande, dietro a una scrivania su cui posa una pianticella quasi morta, un portamatite pieno di matite, un portacenere pieno di cenere, un portafogli con qualche foglio, un portachiavi con tante chiavi. Alle mie spalle invece c’è una porta senza porta, cioè una di quelle porte prive, appunto, della porta. Attorno a me, nella mia dimora ove umilmente dimoro, i mobili, zitti e immobili, restano seduti su se stessi in un’esuberanza di mutande e camicie, maglie e magliette, braghe e braghette, canotte e canottiere. L’aria è statica, la inspiro ed espiro senza pensarci molto, a volte la correggo con una sigaretta per renderla più morbosa e saporita. Con lo sguardo seguo gli anelli di fumo e sogno di volar con loro in spazi infiniti: ma il mio corpo è qui, sotto il peso dell’intero cielo, costretto a combattere la forza di gravità con la forza di volontà, generando nient’altro che forza d’inerzia. È difficile, tra tutte queste forze, trovar posto per la mia debolezza...

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Click

Maria Luisa Sepielli

Pranzo? Abbondante. Tavola? Apparecchiata. Telecomando? In mano. Caffè? Caldo! Tv. Click... Chi sono questi? Illustri sconosciuti. E che fanno? Cercano la compagna che potrebbe essere della loro vita. In tv?... E ci riescono?... Certo che il prof oggi c’è andato giù pesante con la storia del nucleare, del risparmio energetico, dello spreco d’acqua, i rifiuti poi! Forse dovremmo davvero fare qualcosa. Toh, guarda, questa tipa si definirebbe una gatta morta...

però lui 10 e lode! Mai uno brutto in televisione. Aspetta, che dovevo fare? Mannaggia non mi ricordo! Mhmm, però, questo caffè è proprio buono! Sono brava! Sì, ma che dovevo fare? In quanto a memoria stiamo agli ottant’anni eh! Ma guarda un po’, escono pure, cioè si danno proprio gli appuntamenti, solo che ci sono le telecamere... Bene! Ma guarda che impunita, gli si butta addosso...

e lui ci sta... e sfido io che ci sta! Cavolo, l’esame è il 12, manca poco e devo ancora ripetere duecento pagine. Sono proprio stanca, appena finisco mi prendo una pausa, me ne vado al mare, di montagna ne ho abbastanza. Che poi, a cosa serve tutto questo studiare? Tutta questa fatica, tutti questi sacrifici e se sei fortunato ti tocca andare a lavorare lontano che sennò a casa tua fai il disoccupato. Certo, questi in tv non hanno bisogno di studiare, hanno capito benissimo come si sta al mondo. Lo dice sempre anche Sara: «laureato fa rima con disoccupato». Sara, a proposito, non la sento da un po’, chissà se ha finito la tesi? Dovrei chiamare più spesso, ma come faccio? E come fai? Prendi il telefono... Giusto! Dopo la chiamo. Oddio! Che fa ora? Deve scegliere? Tra le due tipe? Ma, adesso? Boh? Ma poi... chi se ne frega? Io vado a studiare. Click.

Ore 16

Tramonti disordinati

Saba Napoletano

«No, I’m not English, I’m Italian.» «Really?» È incredibile il numero di nazionalità che in questo Paese mi trovo mio malgrado a indossare. Gli indiani credono sia inglese, gli inglesi, libanese, per i locali sono genericamente «europea», ma spesso rimangono incerti. Succede sempre così. Ogni volta che nomino l’Italia il taxista di turno comincia a decantare le meraviglie del nostro Paese, sciorinando elenchi di zii, fratelli, conoscenti vari che, a quanto pare, vi hanno fatto fortuna. Di solito, senza farlo apposta, i miei commenti raffreddano di parecchio i miei entusiasti interlocutori. Ma questa volta Salim si volta verso di me con aria corrucciata: «Why Italians can’t speak English?». Sembra molto preoccupato, desideroso quasi di porre rimedio alla dolorosa calamità che affligge il nostro popolo. Vorrei iniziare una delle mie filippiche sui metodi e la storia della didattica italiana, che io sì la scuola la conosco bene, c’insegnavo! E sul fatto che gli studenti dopo tanti anni non parlano le lingue, ma che le nuove generazioni... Ma oggi non ne ho voglia. Siamo arrivati. Mi lancio fuori dal taxi con Salim che mi guarda insoddisfatto: non ho chiarito le sue perplessità, anzi, l’ho confuso, sfoggiandogli dispettosa il mio miglior inglese. Corro verso l’ufficio preparando il passaporto. Due uomini prendono in custodia i miei documenti. Mi rivolgono qualche domanda in tono gentile e poi finalmente mi indicano lo scanner. Sto per ridere. Ci infilo la mano, ma sbaglio. «Thumb first!» Anche loro a questo punto stentano a trattenere le risate. E allora premo forte le dita su questo piccolo schermo, sì, premo forte e guardo i due funzionari con aria orgogliosa. Adesso anch’io sono schedata. Esco dall’edificio, fa ancora molto caldo. Sento il minareto vibrare mentre la palla di fuoco si abbassa quasi con violenza sulla fetta di mare arabico che ci circonda. Una luce arancione si diffonde sulle strade del souk illuminando le infinite donne che abitano questo strano

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Paese: capi coperti, minigonne, occhi liberi in corpi nascosti... Non ho voglia di chiamare un taxi. Non è il momento di filippiche concitate. Cammino lentamente e aggroviglio pensieri disordinati. Ma alla fine torno sempre al mio Paese e con dolorosa tristezza mi viene da pensare che ormai io riesco ad amarlo solo da qui. E lo parlo bene io l’inglese. Sono le 17.00 a Manama, Bahrain.

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Finestre

Alessandro Polcri

Sono seduto al mio computer al quale da alcuni anni vivo attaccato come a un respiratore meccanico. Non so se essere a New York sia uno specifico della mia vita. Del resto, la finestra che dà sulla strada vicino al ponte di Brooklyn non cambia nulla della percezione che ho dell’esterno. Caffè lungo sul tavolo. Mi piace più del- l’espresso (eresia?) e poi dura di più, e sulla durata delle cose si gioca la vita. Dietro di me Sofia Adele sul dondolo mentre guarda estasiata le luci della palla colorata che le gira sopra la testa. Amelia è in palestra. Cerco di lavorare al libro che devo finire. Scrivo a New York sulla Firenze medicea, un libro che pubblicherò in Italia. Ormai sono diventato trans. Attraverso realtà e secoli, come una scimmia che tra i rami insegue una liana dopo l’altra per restare in aria (a terra sarebbe goffa). Vivo così per evitare l’Italia dove sarei goffamente in emergenza continua (ripeterselo è buona cura contro la nostalgia). Mi mette la carica Nek che oggi ascolto a ripetizione (altra eresia?), titolo: Almeno stavolta. E almeno stavolta non voglio lasciare andare queste sensazioni fatte di niente. La loro durata, come il caffè, mi rallegra nella scrittura di queste note. Sorseggio dal bicchierone di Starbucks e scrivo un altro po’. Poi mi fermo, clicco sul giornale online. Ora la bimba urla che ha fame. Le do il latte che la mamma ha pompato. A New York le mamme pompano latte in maniera industriale (anche al lavoro). Torno al computer, e stanco di Nek apro iTunes. Clicco su Mendelssohn. Altra cosa. Sinfonia n. 4 Italiana, manco a farlo apposta. Ma cosa avrà capito dell’Italia Mendelssohn? Ascolto la musica intrisa di una gioia tragica e penso che abbia capito molto. Forse occorre essere stranieri per capire il mio Paese? Spero di riuscirci anch’io, da qui. Riprendo a scrivere. Se penso a quanto il computer mi tiene in vita e connesso mi impaurisco. Il video è vicino alla finestra, entrambi occhi sul mondo: quale sia più reale non saprei dire.

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Questo è il mio tempo

Massimo Intini

DON DON DON DON. L’antico pendolo appeso al muro segna le quattro. È pomeriggio, quasi sera. Fuori la luce è crepuscolare. Dentro è perenne penombra. Erano tanti anni che non tornavo da zia Giovanna. Adesso sono stato quasi costretto da sua nipote, mia madre Margherita, ad andarla a trovare. La figlia di zia Giovanna, Nunzia, è un’ottima sarta e sta completando l’abito di mia madre. Io pazientemente attendo solo nel soggiorno, mentre Nunzia è nel suo studio per gli ultimi sforzi creativi. Il tempo è fermo in quella stanza, arredata come cinquant’anni fa. Mentre siedo su un antico divano con un curioso copridivano stile liberty, osservo alla mia destra una cassettiera antica ma ben conservata con sopra due immancabili campane con dentro San Rocco e San Domenico «sotto vuoto», uno status symbol delle case d’inizio novecento nel sud Italia. Alzo lo sguardo di fronte e osservo il quadro della buonanima dello zio Carlo, morto diversi anni fa per un incidente, cadendo dall’impalcatura su cui stava lavorando. Veste gessato, con la riga a un lato e i capelli lucidamente impomatati. Lo sguardo è fiero, il portamento è impettito: mi sembra un mix di Al Capone e Fred Buscaglione. Improvvisamente avverto un brivido: sono io che guardo la foto dello zio o è lo zio che fissa la ferma immagine della mia stanza? La staticità della scena che mi circonda genera lo stato confusionale in cui verso. Scorgo sordo fuori dalla finestra il passeggio veloce delle mamme con i bambini che scappano chissà dove, il traffico delle auto nella quotidiana danza urbana spesso fine a se stessa magari alla ricerca dell’agognato parcheggio, il «business man» che scappa agitato parlando nervosamente al cellulare... Tutto ciò che mi è sempre parso «normale» adesso non lo è più. Volo libero col pensiero in questa nuova dimensione, custode della vecchia concezione del tempo. Questa fretta ci sta divorando. Si apre la porta dello studio. È Nunzia: «Scusa se ti ho fatto attendere...».

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