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Italians_Una_giornata_nel_mondo

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Ore 11

Londra ore 11: il mercato di Charlot

Lorena Di Nola

Frutta, verdura, uova, spazzolino. Armata di lista della spesa, alle 11 sono al mio mercato rionale. All’ingresso un arco metallico un po’ liberty recita «Welcome to East Street Market», mentre il solito predicatore ricorda ai passanti visioni apocalittiche urlando nel megafono: fra il peso delle buste cariche e i timpani perforati dalle sue urla, le pene infernali sembrano già cominciate. Alla prima bancarella si vendono cartoline augurali: da una cugina di secondo grado in occasione del matrimonio, da una nipote a uno zio per i suoi 73 anni – impossibile trovare una semplice cartolina «Tanti auguri». Walworth è una zona di antica immigrazione caraibica, ma la sua centralità l’ha resa preda dei giovani professionisti della City. Il mercato riflette la popolazione: cd di star caraibiche sono venduti di fronte a borse col marchio «Made in Italy», frutta esotica succulenta, coloratissima e sconosciuta a fianco a meno eccitanti sacchi di patate. I rivenditori sono afrocaraibici o autentici inglesi dall’accento cockney: a unirli l’affabilità con cui ti chiamano «love» non appena ti avvicini per pagare. Anche gli acquirenti sono in gran parte caraibici, come ricorda la taglia dei reggiseni in bella mostra: la quarta pare essere per chi ancora non ha completato lo sviluppo. Si trova un po’ di tutto: di fronte alle trasparenze di sottane leopardate, una bancarella vende Bibbie e filmini religiosi. Il mercato è allegro e colorato, ma l’efficienza britannica arriva anche a East Street: non manca un carretto comunale con funzione di help point. La strada è affollata, e mentre avanzi eroicamente verso la bancarella della frutta ti senti un po’ Mosè. In tutto il mercato risuona musica reggae: qualche rivenditore balla persino, trasformando il rito della spesa del mattino in una specie di carnevale di strada. Se questo mercato era così anche un secolo fa, si spiega perché Charlie Chaplin, che ci nacque e ci lavorò da bambino, sia diventato un genio comico. East Street Market è una centrifuga di

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culture: nessun turista ci viene, eppure questa è una vera immagine della Londra cosmopolita. Qui in un’ora puoi vedere tutto il mondo, e sentirti stranamente allegro quando lasci il mercato, con le buste piene e il portafogli vuoto.

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L’ora in cui mi sveglio

Mirco Corridori

L’ora in cui mi sveglio è solitamente la mia preferita. Apro gli occhi, guardo la sveglia digitale sul comodino e mi accorgo che sono di nuovo le 11. Sospiro contento di non essere rientrato nella statistica di quelli che muoiono nel sonno senza motivo (non che ci sia un motivo valido per morire nel sonno, né per morire in generale). Mio padre ha lasciato del caffè in cucina. È freddo e decido di scaldarlo. Il caffè per essere buono deve essere bollente, devo soffrire nel berlo. Voglio soffrire nel berlo. Una persona che si sveglia alle undici di mattina merita di soffrire in qualche modo. Il telefono non squilla, quindi niente lavoro. Accendo il pc. Nessuna e-mail importante, soltanto un paio di tizi che vogliono allungare il mio pene e una banca che si ostina a chiedere i miei dati personali per motivi di sicurezza. Ad avercelo un conto in banca. Ho del tempo da ammazzare prima del pranzo. Sento già un pungente odore di fritto. È fastidioso a quest’ora. Mi sono appena alzato, diamine! Mi viene in mente che ho trascurato la mia ricerca. Vado su Google e cerco la parola «Molise». Guardo la lista dei risultati sconcertato. Sono migliaia, c’è anche una mappa. Eppure sono convinto che il Molise non esista, se lo sono inventati quelli del governo, le organizzazioni segrete, il Vaticano e a quanto pare anche Google c’è dentro. Avete mai conosciuto qualcuno del Molise? Io no, mai. Il Molise dunque non esiste. Torno a sedere sulla sedia girevole e mi stiracchio. Decido di vedere una puntata di 24. Quello che segue avviene tra le 11 e le 12. Una serie di esplosioni. Jack Bauer cattura un terrorista. Vuole sapere come disattivare la bomba atomica. Non glielo dice mica: è uno di quei fondamentalisti addestrati a morire. Il countdown termina. Kiefer Sutherland lo guarda sbigottito e gli chiede dov’è esplosa la bomba. Il terrorista risponde «nel Molise». Mio padre chiama: è mezzogiorno ed è ora di pranzo. Vado a tavola stremato. È stata un’ora molto intensa.

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Essere puntuali è un difetto

Virna Boiardi

«Buongiorno.» Il colloquio è alle 11, ovvero fra tre minuti. Prima mi sono fermata al bar all’angolo. Ho aperto la porta dell’agenzia alle undici meno cinque esatte. «Il signor Perfetto la raggiungerà tra poco, si accomodi.» È il suo cognome: Perfetto. Come posso affrontare un uomo cresciuto subendo le pressioni di un cognome come questo? Non si è mai preparati a fronteggiare il signor Perfetto. La maniglia si inclina. Eccolo. Saluto, stretta di mano. Pensavo peggio. Niente completo scuro, indossa un maglioncino di un rassicurante beige. «Allora, come mai si trova qui questa mattina?» (Come scusi?) «Per il colloquio di lavoro.» «Sì certo signorina, intendevo, come mai ha risposto al nostro annuncio?» (Ho bisogno di lavorare.) «Ho trovato interessante la vostra offerta.» Fare l’agente è sempre stato il mio sogno. Se solo sapessi cosa fa, di preciso, un agente. «La figura che stiamo cercando si occuperà di procacciare clienti e sviluppare con essi progetti di comunicazione finalizzati a promuovere l’immagine aziendale.» Chiaro. «È una prospettiva molto stimolante.» «Bene, allora ci risentiamo tra qualche giorno, rifletta sulla nostra offerta.» (Soldi?) «Sì, ehm, prima di andare vorrei un chiarimento in merito al trattamento economico previsto.» Il modo più complicato che mi è venuto in mente per chiedere non solo quanto, ma anche se è prevista una paga. Non bisogna darlo per scontato, oggi. «Da questo punto di vista, non deve avere fretta.» Eccolo qua, il signor Perfetto. «Per comprendere meglio, signorina, pensi a un campo.» No. La metafora del campo no. «Il contadino, prima smuove la terra secca.» Annuisco. «Poi semina e innaffia.» Cosa ne saprà poi un milanese snob della campagna. «Dopodiché, attende i primi germogli.» (Devo fermarlo.) «Sì ho capito.» Mi interrompe. «I germogli crescono e diventano piantine che daranno i loro frutti a primavera...» Ormai è andata, la fa tutta. La metafora è chiara fin dall’inizio: io sono alla terra secca. È mezzogiorno.

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Sono «troppo poca»

Francesca Cappella

Ore 11: una giornalista di un’importante trasmissione televisiva mi chiede di incontrarla. Chi sono? Una dottoranda con una borsa scaduta il 16 ottobre e che ha vinto un concorso Ssis (Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento), ma non ha frequentato e che ora si trova con la Ssis chiusa. Mi definisco una «quasi precaria» della scuola e una «quasi precaria» dell’università. Se per i precari la vita in questo momento è difficile, per i «quasi» precari come me sembra non esserci neppure una vita da raccontare. I giornali, i politici parlano continuamente di blocchi del turn over, e a nessuno viene in mente che dietro i blocchi ci sono anche tanti ragazzi che avrebbero titoli e meriti per intraprendere la carriera di precario, ma che sono stati messi fuori per anni. Ore 11.10: mentre ripensavo a tutto questo per poterlo raccontare alla giornalista inizio a pensare al capitolo della tesi che ho lasciato a metà da una settimana e mi chiedo se vale la pena di spendere ancora tempo per denunciare quello che sto vivendo, ma che stanno vivendo centinaia di ragazzi come me! Ore 11.15: sì, ne vale la pena! Sono convinta! Ore 11.20: ecco la giornalista. Ma come: non ci sediamo? Sarò sintetica, ma devo raccontarle tante cose. Ah... No... Non devo raccontargliele... Perché? Perché il servizio sarà sui precari della scuola dell’Università. Ma noi... Noi siamo quasi precari! Eh no... Ma siamo stati toccati da questa congiuntura politica ed economica anche più dei precari stessi. Ma la vostra condizione è particolare: io vi do ragione, ma siete troppo pochi... Ore 11.30: pensavo che fossimo sfortunati, ignorati, coraggiosi, meritevoli, appassionati ai nostri «due mondi» lavorativi. Ma troppo pochi, no. Centinaia di ragazzi sono troppo pochi, centinaia di futuri sono troppo pochi... rispetto ai milioni che sfilano oggi. Ore 11.31: saluto, ringrazio e ingoio l’ennesima porta chiusa in faccia: dal 6 agosto, una volta a settimana, ingoio sempre verso le 11. Aspettando le 12.

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Pedalo per non dimenticare

Monica Patrignani

Ogni mattina alle ore 11: la colf, autista, mamma di tre bimbi, giardiniera, decoratrice, venditrice e-bay, nonché terapeuta familiare in pensione si trasforma in ciclista: casco, guanti, mp3 e via. All’inizio pedalavo per rabbia: ero frenetica e sconnessa, dovevo scappare più in fretta possibile dal 2007. Sfiancata e asfittica, mi allontanavo da gennaio con la diagnosi di un cancro non operabile per mio padre; ho cominciato a spingere con forza sui pedali, la consapevolezza di aver dovuto assistere impotente al progredire della malattia, la frustrazione di non aver potuto far altro che lasciarlo alla morte. Vedo la salita, quella che mi spaccava le gambe, irta e prolungata: mi agito, mi alzo, spingo, sudo, piuttosto muoio, ma lo faccio sulla sella: è febbraio e nell’aria c’è il trasferimento di mio marito in Italia, dopo otto anni di Texas. Mio marito ha solo un lavoro qui, ma io e i miei figli... per noi è diverso: la casa dei miei sogni, la scuola, la colazione del venerdì, il Bingo... è qui che voglio che crescano. Non c’è modo di convincerlo, decide per tutti noi in nome della «sicurezza» della famiglia. A fine agosto noi siamo in Italia: ma la mia vita è rimasta lì. Il dosso non mi ferma, ho una sola molecola di ossigeno, ma vado avanti: il primo di ottobre è morto mio padre, giù sui pedali: spingi, corri, devo combattere il dolore. Sono passati sei mesi di corse, ora pedalo per non dimenticare: sono leggera e regolare, non ho più il fiatone. Un giorno mi sono fermata attirata dalla vista di uno scorcio di lago, invasa da una calma surreale: ho ritrovato mio padre. Pedalo per ricordare: Lisa che passa ancora davanti casa mia in cerca di me; Stacy con la testa rasata per la chemio dipinta come una zucca di Halloween; Terry che riempie la macchina di giochi e con i figli passa il confine per mostrargli «l’altra America»; Vicky la guerriera che è quasi morta pur di diventare madre; Andy che ha sofferto con me il mio stesso dolore; Jennifer, Jaci, Sherry... Pedalo per non

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dimenticare gli infiniti e sconfinati rossi tramonti texani, il cielo color zaffiro, il sole che arde sulla pelle, il vortice del tornado tra le nuvole, il sapore delle bistecche, l’opossum che cammina sulla mia staccionata, mio marito e i miei figli che ballano felici in agosto le musiche del cd di Natale... pedalo per non dimenticare mai quella che ero.

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L’udienza

Carlotta Tancioni

«Per favore, un po’ di silenzio!» Il giudice batte con la mano aperta sulla piccola scrivania di legno, simile alle vecchie cattedre delle scuole di paese. Il piano è ricoperto di faldoni ammonticchiati in apparente disordine e accumulati in pile alte quanto la testa del giudice che in questo momento si sta sporgendo per rimproverare l’uditorio. Di fronte al tavolo, quattro persone tentano di incrociare gli occhi del giudice attraverso le alte torri di documenti e contemporaneamente cercano le parole e gli atteggiamenti migliori per illustrare le proprie ragioni. È da un anno che aspettano questo momento. Tutt’intorno un brusio ininterrotto, appena appena più lieve dopo il recente rimprovero del giudice, un vociare ora smorzato ora più acuto, dal quale emergono spezzoni di frasi senza senso apparente, qualche risata in sordina, il rumore di sedie spostate, il fruscio incessante di documenti sfogliati, letti, firmati, bollati, fotocopiati, depositati. La porta della piccola aula – una stanza con una sola finestra sporca nel mezzo di un corridoio affollato – si apre e si chiude senza sosta, persone di tutti i tipi entrano ed escono continuamente, talvolta portando fasci di carte sotto il braccio. Gli avvocati si lanciano richiami utilizzando il cognome dei clienti per riconoscersi. La piccola stanza è colma della febbrile attività di un’umanità indifferente, strafottente, irridente, più raramente preoccupata o addolorata. Il giudice ha fretta, il ruolo di oggi è molto lungo, nessuna delle quattro persone sedute di fronte a lei ha avuto il tempo e il modo di rappresentare veramente la propria situazione. Sono disorientati. Il giudice li congeda con un debole sorriso assente e frettoloso. Avanti il prossimo. La folla si accalca: il triste, forse inutile, lentissimo teatro della legge ricomincia. Settembre 2008. Tribunale civile di Roma – Sezione per la famiglia e la persona.

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